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DENTRO IL RICORDO. IL PENSIERO VISIVO DI EDVARD MUNCH |
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Ne fanno parte, tra gli altri, il celebre Urlo, Madonna, Vampiro, Verso la foresta, La donna in tre fasi, Ceneri (o Dopo la caduta), Maliconia, Gelosia, Disperazione.
La profonda inquietudine che caratterizza queste ed altre opere corrisponde, si, a quel disagio esistenziale che emerge dai paesaggi letterari di Ibsen e Strindberg, colto e mediato dall’individualismo Kirkegaardiano; tuttavia, così come accadrà a Kafka, Edvard Munch non cesserà mai di provare un’angoscia e un senso di colpa autentici, che pur nutrendosi dello spirito simbolista e decadente che li contestualizzano storicamente, superano le correnti artistiche, vanno oltre la quotidianità e sembrano affondare le loro radici nel metafisico. Il suo pensare visivo corrisponde sin dagli esordi al continuo processo di scrittura e riscrittura di un passato che ritorna in forma di ricordo reiterato allo sfinimento attraverso il modus operandi della ripresa di uno stesso soggetto. «Se riprendo più volte un tema – scrive Munch su uno dei suoi taccuini – è per calarmici dentro più profondamente. Un’immagine non si esaurisce in un unico dipinto.
Ogni versione rappresenta un contributo al sentimento della mia prima impressione». “Ripresa e reminiscenza – scrive Søren Kierkegaard nel saggio La Ripresa, 1843 – rappresentano lo stesso movimento, ma in direzione opposta, perché ciò che si ricorda è stato, ossia riprende retrocedendo, mentre la vera ripresa è un ricordare procedendo». Così accade infatti con la sua tela decisiva, Bambina malata, che egli stesso considera matrice di quasi tutto ciò che verrà sviluppato in seguito.
Cinque versioni – una ogni dieci anni − del dipinto raffigurante la sorellina Sophie sul letto di morte compianta dalla zia che le stringe la mano sofferente, e un numero pressoché indefinito di variazioni grafiche, in particolare litografie variate in tinte diverse. «[…]Ho ridipinto questo quadro molte volte – ricorderà Munch – l’ho raschiato, l’ho diluito con la trementina, ho cercato parecchie volte di ritrovare la prima impressione, la pelle trasparente, pallida contro la tela, la bocca tremante, le mani tremanti[…] ho raschiato attorno a metà, ma ho lasciato della materia. Ho scoperto così che le mie ciglia partecipavano alla mia impressione. Le ho suggerite come dello ombre sul dipinto. In qualche modo la testa diventava il dipinto. […] finalmente smisi, sfinito. Avevo raggiunto la prima impressione». In questo modo, attraverso un autobiografismo che non si stanca mai di proporsi in forma di un simbolismo privato che fissa la realtà non nell’osservazione, ma nel ricordo, non nella stasi, ma nell’attimo, Munch riprende possesso di se stesso, della storia e del mondo che lo circonda, tramutando i suoi “diari” personali («I miei quadri sono i miei diari») in un paradigma universale ove l’osservatore viene travolto dal dilemma della vita e non può fare a meno di immedesimarsi in esso. «Non so cos’altro fare – scriveva Munch durante anni di Parigi – se non lasciare che la mia pena invada l’alba e il tramonto»: Ansia, turbamento, angoscia, percezione onnipresente della finitezza dell’uomo esplodono dalle sue tele, nei volti lividi e spettrali dei borghesi in Angoscia (1894), o nel celebre grido della gettatezza esistenziale, al contempo più tragico dei suoi autoritratti che − parole dell’artista stesso − «poteva essere dipinto solo da un pazzo», l’Urlo (1895); nella silenziosa tristezza della rarefatta Notte a Saint-Claud (1890), in quell’incubo senza soluzione che è Disperazione (1892), nell’immobile solitudine di Melanconia, anche detta Sera (1891), in Sera sulla via di karl Johan (1892), macabra danza della folla moderna.
Turbamento, angoscia, impotenza, solitudine, malattia, pazzia, è persino l’amore, percepito come conflitto e scontro in cui l’uomo non può fare altro che soccombere di fronte alla femminilità della donna che lo attrae, lo seduce e lo annienta: «questi dipinti - scrive Munch nel 1895 a proposito del primo ciclo di opere sul tema dell’amore – sono stati d’animo, impressioni della vita e dell’anima e insieme rappresentano un aspetto della battaglia tra uomo e donna chiamato amore […] la donna che offre se stessa e raggiunge la bellezza dolorosa di una madonna – la donna nella sua multilateralità è un mistero per l’uomo − la donna che è una e contemporaneamente è una santa, una puttana, una creatura infelice e abbandonata». Sono gli anni della fluttuante Madonna (1893);riproposta in molte varianti), donna-amante e donna-madre nuda, in posizione frontale, prospettiva colta dal basso, espressione estatico-agonica in volto: «le tue labbra cremisi come il frutto che matura si allontanano l’una dall’altra come se soffrissero. Il sorriso di un cadavere. Adesso la vita porge la mano alla morte. Viene chiusa la catena che unisce mille generazioni di morti a mille generazioni future». Sono pure gli anni dell’abbraccio senza scampo, che divora e cattura l’uomo in Vampiro (1893-1894) e delle protagoniste delittuose e impassibili, che rievocano ossessivamente la tormentata relazione con Tulla Larsen, come nel celebre La morte di Marat (1907). Quelli di Edvard Munch sono, indubbiamente, paesaggi della mente, ove al ricordo che si esprime nella rappresentazione pittorica (e vice versa) viene data vita attraverso la materialità della tela - la pennellata violenta, graffiata o spessa e ridondante, le tinte forti e irreali, l’accanimento sugli strati di colore, l’utilizzo della tecnica del collage, della fotografia, la superficie pittorica letteralmente solcata in una sperimentazione continua volta a dimostrare come l’arte riesca a rappresentare la vita solo in virtù del fatto che è essa stessa cosa viva. Fermamente convinto che «un buon quadro non muore mai», mette alla prova la materia e il suo spirito. Nell’atelier all’aperto della residenza di Ekely, dove «il cielo diventa tetto e la terra pavimento» Munch, con la neve fino alle caviglie, dipinge le sue grandi tele, e lì le lascia, sottoponendole a quella che egli stesso chiama “cura da cavallo”. Altre volte le appende alla vegetazione o le distende al suolo, esposte alla pioggia, al vento, o «al sole d’autunno, come immensi gioielli». Spirito anarchico, geniale, tormentato, sempre minacciato dal germe della follia, che pure lo costringerà più volte al ricovero in sanatorio, Edvard Munch inaugura, proprio in virtù della necessità continua di ricordare, riscrivere ed esorcizzare il vissuto − attraverso lo spazio vivo della tela che respira, parla ed esiste come soggetto di una sorta di auto rappresentazione − quella ribellione alla realtà dell’impressione che attraverso la rivoluzione di prospettiva conduce all’espressionismo. E’ così che, distaccandosi da tutte le convenzioni di artisti e movimenti precedenti, riassumendo e poi contrastando impressionismo, simbolismo, naturalismo Munch finisce per avviarsi precocemente e quasi inconsapevolmente verso il modernismo. |
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Uscita nr. 57 del 20/05/2014 |