:: CULTURA  
 

DENTRO IL RICORDO. IL PENSIERO VISIVO DI EDVARD MUNCH
Piera Melone

     

 

 

Sembra lampeggiare fievole dalla lapide abissale di un sepolcro -  quel rettangolo nero, la tela scura che ne incornicia il volto bianco - Edvard Munch, in Autoritratto con braccio di scheletro (1895), una sorta di immagine-epitaffio, memento mori così vicino alla tradizione tedesca di metà Ottocento eppure al contempo così  fedele all’indole più profonda dell’autore. Se in Autoritratto con sigaretta (1895) la condizione esistenziale dell’artista come entità che vive nella separazione e  nell’isolamento emerge con forza nella luce che impatta sul soggetto senza però strapparlo completamente dal carico d’ombra e di oscurità alle sue spalle, in Autoritratto all’inferno (1895) la percezione di un’impossibile riconciliazione con il mondo, di una solitudine densa e distante viene portata allo stremo, con la figura dell’autore che si staglia nuda, primordiale, sullo sfondo di un rosso vorticoso - quello del fuoco, del peccato, degli inferi – e di un nero – quello della morte- ovvero l’ombra del soggetto, che sovrasta l’intera tela («Dopo aver acceso la lampada, vedo improvvisamente la mia ombra enorme che va dalla parete fino al soffitto. E nel grande specchio sopra la stufa vedo me stesso, il mio stesso volto spettrale. E vivo con i morti, con mia madre, mia sorella, mio nonno e mio padre, soprattutto con lui. Tutti i ricordi, le più piccole cose, vengono alla superficie...»).
Certo è che Edvard Munch (Løten, 12 dicembre 1863 – Oslo, 23 gennaio 1944) conosce la morte fin dalla più tenera età. La madre lo lascia giovane, quando il piccolo Edvard ha solo cinque anni; dei cinque fratelli Munch si occuperà la loro zia, Karen Bjølstad, donna forte, dallo spiccato senso pratico e pittrice. Qualche anno più tardi la sorella Sophie muore di tubercolosi dopo una lunga degenza che lascerà un segno profondo nei ricordi di Edvard. Il padre medico, che in seguito ai lutti soffrirà di sindrome maniaco-depressiva («talvolta raggiungeva i limiti della follia, quando camminava avanti e indietro pregando Dio»), non di rado lo conduce con sé, fin da bambino, nelle sue visite, che rappresenteranno un ulteriore momento di contatto con la sofferenza e la malattia: «Fin dalla nascita gli angeli dell’angoscia, del dolore, della morte erano dalla mia parte: mi seguivano quando uscivo, quando mi addormentavo, nel sole primaverile, nello splendore dell’estate.
Mi scrutavano quando chiudevo gli occhi e mi minacciavano con lo spettro dell’inferno e della punizione eterna. […] La malattia inseguì il corso della mia infanzia e della mia adolescenza. Il bacillo della consunzione mi perseguitava e issava il suo vessillo rosso sangue sul fazzoletto bianco. E i miei amici più cari morivano uno ad uno». Nel 1885, conclusa l’Accademia di pittura di Christiania (odierna Oslo) dove già frequenta Hernrik Ibsen e la gioventù bohemien nel pieno del suo fermento culturale,  si sposta per tre settimane a Parigi, dove forte è lo spirito di Gauguin, Van Gogh, Degas e Toulouse-Lautrec; espone a Christiania, suscitando una serie di polemiche per i forti dipinti  Bambina malata, Il giorno dopo e Pubertà. Ma il vero “caso Munch” verrà scatenato in occasione di un’ esposizione a Berlino, nel 1892, quando i suoi dipinti sull’amore e sulla morte provocano reazioni così violente che la mostra viene subito cancellata dalle autorità. E’ proprio a Berlino, dove Munch frequenta la cerchia di letterati che si stringe attorno ad August Strindberg e Stanisław Przybyszewski, che l’artista inizia a maturare l’audace progetto che prenderà il nome di Fregio della vita, sorta di autobiografia a scatti che sarà esposta nella capitale solo dieci anni dopo: ventidue dipinti incastonati in un’unica cornice bianca che corre come un nastro lungo le pareti. “Risveglio dell’amore”, “sbocciare e declinare dell’amore”, “angoscia di vivere” , “morte”: le quattro sezioni del Fregio  non concepiscono le opere di Munch solamente come tessere di un unico, grande mosaico, ma di quel mosaico fanno una sequenza in cui si dispiega davanti agli occhi dell’osservatore - come fosse l’ultima, grande immagine, un grandangolo finale  - il senso della vita.

Ne fanno parte, tra gli altri, il celebre Urlo, Madonna, Vampiro, Verso la foresta, La donna in tre fasi, Ceneri (o Dopo la caduta), Maliconia, Gelosia, Disperazione.

La profonda inquietudine che caratterizza queste ed altre opere corrisponde, si, a quel disagio esistenziale che emerge dai paesaggi letterari di Ibsen e Strindberg, colto e mediato dall’individualismo Kirkegaardiano; tuttavia, così come accadrà a Kafka, Edvard Munch non cesserà mai di provare un’angoscia e un senso di colpa autentici, che pur nutrendosi dello spirito simbolista e decadente che li contestualizzano storicamente, superano le correnti artistiche, vanno oltre la quotidianità e sembrano affondare le loro radici nel metafisico.

Il suo pensare visivo corrisponde sin dagli esordi al continuo processo di scrittura e riscrittura di un passato che ritorna in forma di ricordo reiterato allo sfinimento attraverso il modus operandi della ripresa di uno stesso soggetto. «Se riprendo più volte un tema – scrive Munch su uno dei suoi taccuini – è per calarmici dentro più profondamente. Un’immagine non si esaurisce in un unico dipinto.

    

Ogni versione rappresenta un contributo al sentimento della mia prima impressione». “Ripresa e reminiscenza – scrive Søren Kierkegaard nel saggio La Ripresa, 1843 – rappresentano lo stesso movimento, ma in direzione opposta, perché ciò che si ricorda è stato, ossia riprende retrocedendo, mentre la vera ripresa  è un ricordare procedendo». Così accade infatti con la sua tela decisiva, Bambina malata, che egli stesso considera matrice di quasi tutto ciò che verrà sviluppato in seguito.

Cinque versioni – una ogni dieci anni −  del dipinto raffigurante la sorellina Sophie sul letto di morte compianta dalla zia che le stringe la mano sofferente, e  un numero pressoché indefinito di variazioni grafiche, in particolare litografie variate in tinte diverse. «[…]Ho ridipinto questo quadro molte volte – ricorderà Munch – l’ho raschiato, l’ho diluito con la trementina, ho cercato parecchie volte di ritrovare la prima impressione, la pelle trasparente, pallida contro la tela, la bocca tremante, le mani tremanti[…] ho raschiato attorno a metà, ma ho lasciato  della materia. Ho scoperto così che le mie ciglia partecipavano alla mia impressione. Le ho suggerite come dello ombre sul dipinto. In qualche modo la testa diventava il dipinto. […] finalmente smisi, sfinito. Avevo raggiunto la prima impressione». In questo modo, attraverso un autobiografismo che non si stanca mai di proporsi in forma di un simbolismo privato che fissa la realtà non nell’osservazione, ma nel ricordo, non nella stasi, ma nell’attimo, Munch riprende possesso di se stesso, della storia e del mondo che lo circonda, tramutando i suoi “diari” personali («I miei quadri sono i miei diari») in un paradigma universale ove l’osservatore viene travolto dal dilemma della vita e non può fare a meno di immedesimarsi in esso. «Non so cos’altro fare – scriveva Munch durante anni di Parigi – se non lasciare che la mia pena invada l’alba e il tramonto»: Ansia, turbamento, angoscia, percezione onnipresente della finitezza dell’uomo esplodono dalle sue tele, nei volti lividi e spettrali dei borghesi in Angoscia (1894), o nel celebre grido della gettatezza esistenziale, al contempo più tragico dei suoi autoritratti che − parole dell’artista stesso − «poteva essere dipinto solo da un pazzo», l’Urlo (1895); nella silenziosa tristezza della rarefatta Notte a Saint-Claud (1890), in quell’incubo senza soluzione che è Disperazione (1892), nell’immobile solitudine di Melanconia, anche detta Sera (1891), in Sera sulla via di karl Johan (1892), macabra danza della folla moderna.

Turbamento, angoscia, impotenza, solitudine, malattia, pazzia, è persino l’amore, percepito come conflitto e scontro in cui l’uomo non può fare altro che soccombere di fronte alla femminilità della donna che lo attrae, lo seduce e lo annienta: «questi dipinti -  scrive Munch nel 1895 a proposito del primo ciclo di opere sul tema dell’amore – sono stati d’animo, impressioni della vita e dell’anima e insieme rappresentano un aspetto della battaglia tra uomo e donna chiamato amore […] la donna che offre se stessa e raggiunge la bellezza dolorosa di una madonna – la donna nella sua multilateralità è un mistero per l’uomo −  la donna che è una e contemporaneamente è una santa, una puttana, una creatura infelice e abbandonata». Sono gli anni della fluttuante Madonna (1893);riproposta in molte varianti), donna-amante e donna-madre nuda, in posizione frontale, prospettiva colta dal basso, espressione estatico-agonica in volto: «le tue labbra cremisi come il frutto che matura si allontanano l’una dall’altra come se soffrissero. Il sorriso di un cadavere. Adesso la vita porge la mano alla morte. Viene chiusa la catena che unisce mille generazioni di morti a mille generazioni future». Sono pure gli anni dell’abbraccio senza scampo, che divora e cattura l’uomo in  Vampiro (1893-1894) e delle protagoniste delittuose e impassibili, che rievocano ossessivamente la tormentata relazione con Tulla Larsen, come nel celebre La morte di Marat (1907). Quelli di Edvard Munch sono, indubbiamente, paesaggi della mente, ove al ricordo che si esprime nella rappresentazione pittorica (e vice versa) viene data vita attraverso la materialità della tela - la pennellata violenta, graffiata o spessa e ridondante, le tinte forti e irreali, l’accanimento sugli strati di colore, l’utilizzo della tecnica del collage, della fotografia, la superficie pittorica letteralmente solcata in una sperimentazione  continua volta a dimostrare come l’arte riesca a rappresentare la vita solo in virtù del fatto che è essa stessa cosa viva. Fermamente convinto che «un buon quadro non muore mai», mette alla prova la materia e il suo spirito. Nell’atelier all’aperto della residenza di Ekely, dove «il cielo diventa tetto e la terra pavimento» Munch, con la neve fino alle caviglie, dipinge le sue grandi tele, e lì le lascia, sottoponendole a quella che egli stesso chiama “cura da cavallo”. Altre volte le appende alla vegetazione o le distende al suolo, esposte alla pioggia, al vento, o «al sole d’autunno, come immensi gioielli». Spirito anarchico, geniale, tormentato, sempre minacciato dal germe della follia, che pure lo costringerà più volte al ricovero in sanatorio, Edvard Munch inaugura, proprio in virtù della necessità continua di ricordare, riscrivere ed esorcizzare il vissuto − attraverso lo spazio vivo della tela che respira, parla ed esiste come soggetto di una sorta di auto rappresentazione − quella ribellione alla realtà dell’impressione che attraverso la rivoluzione di prospettiva conduce all’espressionismo. E’ così che, distaccandosi da tutte le convenzioni di artisti e movimenti precedenti, riassumendo e poi contrastando impressionismo, simbolismo, naturalismo Munch finisce per avviarsi precocemente e quasi inconsapevolmente verso il modernismo.

Uscita nr. 57 del 20/05/2014