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Il “test del DNA” è un’analisi che, da qualche tempo, la cronaca ha fatto entrare in qualche modo nelle nostre case. Spesso infatti si legge che è grazie al DNA se quel tal individuo è stato riconosciuto o il colpevole di quell’efferato delitto è stato arrestato o, ancora, se i poveri resti delle vittime del tifone che ha recentemente devastato le Filippine saranno identificati. Oggi è questo il mezzo attraverso il quale riconoscere ma non è sempre stato così.
Se identificare una persona al di là di ogni ragionevole dubbio, stabilendone l’identità, è un tema che ha affascinato l’uomo fin dai tempi antichi, pare che sia all’uso delle impronte digitali che si sia fatto ricorso come primo mezzo indiscutibile e sicuro di riconoscimento. Risalgono infatti al V secolo a.C. i primi riscontri, tanto in Babilonia come nella lontana Cina, dell’uso di imprimere le proprie impronte digitali su tavolette di transazioni commerciali a garanzia dell’autenticità del documento. Ma l’interesse per questi “strani disegni” presenti sui polpastrelli è ancora precedente infatti in alcune pietre lavorate, rinvenute in Francia e in Irlanda e risalenti al neolitico (2000 a.C), sono già presenti inequivocabili riproduzioni di impronte digitali. Molto più tardi anche Roma le usava a fini identificativi e la storia ci tramanda che nella Persia del XIV sec., grazie all’osservazione attenta di centinaia di documenti siglati con impronte, si era già compreso che non ve ne erano mai due esattamente uguali. E chiaro come fin da allora fosse sentita la necessità di poter identificare un individuo in maniera incontrovertibile e a questo scopo ci si serviva proprio di quei disegni formati dalle creste cutanee dei polpastrelli che, evidentemente, si sapeva essere unici.
In effetti le impronte digitali, che iniziano a formarsi entro le 24 settimane successive alla fecondazione e che si configurano definitivamente nel feto intorno al settimo mese di gravidanza, non cambiano durante l’arco dell’intera vita al punto che, se vengono lese da tagli o abrasioni, la riparazione avviene seguendo lo stesso caratteristico e personale disegno. Se l’osservazione del fenomeno è antica, come abbiamo visto, per averne documentazione si deve però attendere la metà del XVII secolo quando fu descritta per la prima volta dall’insigne medico di Crevalcore Marcello Malpighi. Poi, alla fine del XVIII secolo, un anatomico tedesco, Johann Mayer, avanzò l’ipotesi dell’unicità delle impronte nei diversi individui ma solo dopo un altro secolo lo scozzese Henry Faulds ne propose l’utilizzo come mezzo di identificazione. Si deve arrivare comunque al 1892 perché, ad opera di Francis Galton, ne sia provata, certo con i mezzi di allora, l’individualità e la persistenza tanto che nel 1901 in Inghilterra e nel Galles, e l’anno successivo negli Stati Uniti, si introdusse il metodo del rilevamento delle impronte nell’identificazione dei criminali.
L’utilità pratica dell’uso delle impronte digitali si basa essenzialmente sul fatto che, appunto, la configurazione e i dettagli del disegno sono permanenti, che non si riscontrano mai due disegni uguali in persone differenti e che è possibile una classificazione sistematica di tali configurazioni.
Un'impronta digitale è costituita da un insieme di linee che scorrono parallele, che a volte si intersecano oppure si interrompono, formando in tal modo un disegno. Vengono analizzate le aree centrali, le biforcazioni, le terminazioni, gli incroci, i flussi delle linee stesse o di gruppi di esse; insomma, ogni dettaglio è fondamentale per caratterizzare l’impronta che poi può essere usata sia per “identificare” che per “riconoscere”. I due percorsi sono diversi in quanto, se per riconoscere si tratta di paragonare due sole impronte, per l’identificazione il campione di ingresso deve essere ritrovato fra un numero molto alto di impronte. Quindi, mentre un singolo confronto fra due impronte può richiedere solo 10 millisecondi, la scansione di un archivio di 30.000.000 impronte richiederebbe più di 80 ore così si ricorre ad algoritmi che limitano il numero dei confronti, escludendo a priori i meno probabili, e velocizzano l’intero processo.
L'algoritmo è di fondamentale importanza poiché si occupa di assegnare anche un punteggio di validità, che tiene conto, oltre a ciò, della qualità dell’impronta stessa.
In tutto questo c’è comunque da dire che la scienza moderna non ha dato ancora dimostrazione scientifica dell’individualità assoluta delle impronte anche se il loro riformarsi, dopo lesione, esattamente secondo il primitivo disegno, e quindi la loro immutabilità ci fa intuire una sottostante base genetica (*). In ogni caso, la possibilità di variazione del disegno dell'impronta tra una persona e un’altra è talmente elevata che si può ragionevolmente affermare che non compaiono mai due disegni uguali in diverse dita della stessa persona o in persone differenti e questo dato empirico è preso a prova della loro unicità.
Al contrario, come è noto, l’unicità dei geni è un fatto. Di generazione in generazione le caratteristiche geniche vengono ereditate, combinate, assortite e riassortite attraverso un comun denominatore, il DNA, che nei diversi individui si diversifica per un certo numero, circa 3 milioni, di coppie basi (A-T, G-C) cioè di quell’accoppiamento privilegiato tra i quattro possibili mattoni che strutturano la molecola della vita.(**) Questo vuol dire che, ad esclusione dei gemelli monozigoti, si può affermare, con ragionevole grado di certezza, che non esistono due esseri umani con identica sequenza di DNA.
Da un certo punto di vista questo dato può sembrare sorprendente in quanto sappiamo che, per esempio, uomini e scimpanzé condividono il 98,5% del DNA, e che gli esseri umani tra loro ne condividono addirittura il 99,9%. Ma se questo è vero, come si può identificare con certezza un individuo in base al suo DNA? Questo è possibile perché, nonostante la maggior parte del nostro genoma sia condivisa con il resto dell’umanità, vi sono delle piccole differenze di sequenza che concorrono a determinare quell'individualità che è caratteristica dei diversi esseri umani.
Per chiarire questo punto facciamo un passo indietro. I geni non sono altro che sequenze di DNA, ovvero tratti di questa molecola che contengono l’informazione per formare una proteina. Questi geni non sono disposti generalmente in successione nelle lunghe molecole di DNA, cioè uno dopo l’altro, ma sono intervallati tra loro da quelle che sono chiamate sequenze non codificanti, parti che non contengono informazioni a noi oggi note. Proprio questi tratti vengono usati per distinguere, caratterizzare e quindi riconoscere i diversi individui in quanto la loro variabilità è talmente elevata da risultare caratteristica per ognuno di noi. E questa parte di DNA differente è sufficiente a distinguere un soggetto da un altro e a determinarne il profilo che è basato su brevi sequenze di nucleotidi (le basi di cui si diceva) che si ripetono un numero diverso di volte nei vari individui. Queste brevi sequenze si chiamano microsatelliti, noti anche come simple sequence repeats (SSRs9 o short tandem repeats - STRs) e possono presentare ripetizioni della stessa sequenza da 1 fino a 6 volte o più. Poiché persone non legate da vincoli di parentela presentano un numero diverso di ripetizioni di queste sequenze, proprio la loro lunghezza è usata per l’identificazione personale o parentale. Così si analizzano regioni altamente polimorfe (variabili nei diversi soggetti) che posseggono sequenze ripetute di basi.
La potenza del risultato del test, dal punto di vista statistico, è data dall’analizzare simultaneamente più gruppi di queste successioni di basi. Facciamo un esempio per capire: se definiamo per semplicità un certo tipo di DNA con “ABC”, intendendo con A e B e C tre zone indipendenti, e anche lontane tra loro, del genoma, la probabilità che un soggetto presenti nel suo DNA proprio ABC è data dalla probabilità di possedere la “sequenza A” moltiplicato per quella di avere la “sequenza B” moltiplicato per quella di avere la “C”, che, tradotto in numeri, significa una probabilità di almeno 1/quintilione (1 con 18 zeri).
Fu Sir Alec Jeffreys, insigne biochimico dell’Università di Leicester, in Inghilterra, che negli anni ottanta notò che, nella sequenza del DNA, esistevano proprio dei tratti che si ripetevano un numero diverso di volte da individuo a individuo; in altre parole fu lui che si rese conto per primo che esisteva una piccola parte del nostro DNA che ci rendeva unici. Da questa scoperta a ideare la tecnica per identificare le impronte genetiche il passo fu breve.
Questo concetto è entrato di prepotenza nel mondo della scienza con il termine di DNA fingerprint, “impronta digitale biologica” per analogia con le più note impronte digitali, fingerprint. La tecnica si basa sulla caratterizzazione di circa 20 di queste regioni variabili (polimorfe) che consente di costruire una sorta di codice genetico unico ed identificativo della persona, un qualcosa di simile al codice a barre presente sulla confezione di molti prodotti commerciali. Le metodologie usate hanno rivelato potenzialità e versatilità tali da conquistare in poco tempo credito e favore non solo all’interno della comunità scientifica internazionale, ma anche tra legislatori e giudici, tradizionalmente più prudenti nei confronti dell’introduzione di nozioni tecniche tra i banchi di giustizia. Così la genetica forense si è andata presto delineando come scienza autonoma consentendo di formulare un concetto nuovo di identità individuale, definibile come identificazionegenetica, strettamente legato alle leggi della biologia, della genetica, dell’ereditarietà e del calcolo delle probabilità.
Ognuno di noi è dunque identificabile da un particolare e peculiare codice a barre, alla cui costituzione concorrono, in parti uguali, entrambi i genitori. E’ proprio quest'ultima considerazione il presupposto scientifico fondamentale per poter interpretare correttamente i risultati delle analisi genetiche per l'accertamento della paternità biologica o per permettere la ricostruzione di interi alberi genealogici. Questo perché durante il concepimento i gameti paterno e materno si fondono in un’unica cellula (zigote) mettendo in comune il loro DNA. Lo zigote, che quindi contiene una combinazione unica di DNA derivata da entrambi i genitori, si divide e si moltiplica durante l’embriogenesi dando vita al nuovo individuo (progenie) nel quale ogni cellula, e questo è il punto cruciale, contiene lo stesso DNA, metà di derivazione materna e metà paterna. Questo DNA può essere messo a confronto con il DNA di madre e padre presunti. Su questo presupposto si basa lo studio parentale che può essere eseguito indistintamente a partire da una qualsiasi cellula del soggetto.
Ma il risvolto forse più intrigante di questa tecnica è la sua applicazione nel campo della criminologia. Dalle analisi di tracce di materiale biologico, anche esigue, rinvenute sulla scena del delitto, e grazie all’opportunità di identificare, per confronto o ricerca in un database, colui dal quale le tracce derivano, è possibile spesso risalire all’autore di un atto criminoso e/o assolvere chi erroneamente sia stato accusato di quel crimine. La genetica forense è materia di grande complessità che richiede conoscenze dedicate di carattere multidisciplinare anche se è comunque il laboratorio a ricoprire il ruolo principale attraverso analisi volte alla determinazione del profilo genetico, delicatissime e particolarmente insidiose poiché ad essere esaminato è un reperto biologico per sua natura deteriorabile e che spesso è rinvenuto con un certo ritardo rispetto al momento dell’accadimento del fatto e quindi può essere di difficile esame.
Ma le sfere di interesse di questa interessante branca della scienza sono in crescita e toccano anche ambiti poco noti come la caratterizzazione di specie animali in pericolo di estinzione per favorire accoppiamenti tra esemplari quanto più possibile dissimili tra loro e quindi atti a generare prole più forte, oppure il riconoscimento della presenza di batteri o altri inquinanti nell’acqua, aria etc. fino al confronto del profilo genetico di donatori e riceventi nei programmi di trapianto d’organo. E la versatilità delle applicazioni di questo giovane ramo della scienza si apprezza anche in settori sociali come nel caso dell’identificazione, come si diceva, delle vittime di catastrofi o di attentati, quando il riconoscimento dei corpi con i mezzi tradizionali sia impossibile.
Gli scienziati forensi analizzano oggi 20 regioni di DNA (loci) per identificare un profilo genetico, un DNA fingerprint. Praticamente non ci sono possibilità che due persone, non gemelle, abbiano proprio lo stesso profilo di DNA in tutte queste 20 diverse regioni: la probabilità che 2 individui abbiano lo stesso profilo è infatti 30.000milioni/uno. Quando nell’analisi si valutino queste regioni singolarmente, una per una, non si riuscirà ad avere informazioni definitive e certe ma, quando le si considerino tutte venti insieme, esse ci porteranno dritto alla meta. Questo tipo di analisi può essere effettuato a partire da materiali biologici molto diversi tra loro con l’unica restrizione data dalla necessità che siano presenti e recuperabili cellule dotate di nucleo dalle quali poter estrarre il DNA necessario per lo studio. Nei casi di reati quali omicidi, violenze sessuali ed aggressioni la tecnica del fingerprint viene usata per confrontare l’impronta genetica del sospettato con quella ottenuta da tracce di materiale biologico (saliva, capelli, piccole macchie di sangue, mozziconi di sigaretta, reperti ossei, piccoli frammento di pelle o unghie, tracce di liquido seminale su indumenti, tracce biologiche su oggetti di diversa natura ecc.) rinvenute nel luogo dov’è avvenuto il reato. Si prendono in esame due, tre, quattro…. fino appunto anche a venti diverse sequenze ripetute, localizzate in punti diversi del genoma e si confrontano tra loro nei due esemplari.
Trovare corrispondenza nei due campioni significa che il DNA appartiene alla stessa persona “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Al contrario, se i profili dei due campioni non corrispondono, si può concludere con certezza che il sospettato non è l’autore del crimine. Oggi, grazie a sofisticate apparecchiature automatizzate, si arriva a identificare il profilo anche di 100 campioni al giorno e nella routine, come prima indagine, vengono usati comunemente un numero di dieci microsatelliti ai quali si aggiunge un marcatore di determinazione del sesso per ottenere un potere discriminante di 1/1 bilione. La fase finale dell’intero processo, che richiede particolare attenzione perché alla prova del DNA possa essere attribuito un reale valore, è la corretta presentazione del dato analitico corredata delle appropriate valutazioni probabilistiche.
Così lo studio delle impronte digitali che, all’inizio del secolo scorso, aveva rivoluzionato le indagini forensi, a distanza di cent’anni si è arricchito di un’ulteriore tecnica, più al passo con i tempi e altrettanto affascinante: lo studio delle impronte profonde e indelebili che si celano nei recessi più intimi di ognuno di noi.
(*) In qualche modo, anche se indirettamente, un recente studio pubblicato sulla prestigiosissima rivista scientifica American Journal of Human Genetics sembra avvalorare la base genetica della formazione delle impronte. Tutto ha inizio nel 2007 quando una donna svizzera, in procinto di atterrare negli Stati Uniti, risultò, ai normali controlli, non possedere impronte digitali. Subito la comunità scientifica si mobilitò per indagare le origini e la ragione di questa bizzarria. Si scoprì così l’esistenza di un tratto raro, detto adermatoglifia che porta sia all’assenza di impronte digitali, che delle creste e dei solchi sui palmi delle mani, sulle piante dei piedi e sulle dita dei piedi. I casi documentati riguardano per ora solo quattro famiglie, delle quali quella di origine della nostra signora presenta ben nove componenti senza impronte nei quali si scoprì che era coinvolto un gene, chiamato SMARCAD1, il quale era presente, nei soggetti in esame, con un numero inferiore di copie rispetto alla norma.
(**) Si pensi alla lunga molecola del DNA come a una collana formata dall’intreccio di due lunghi fili ognuno formato dalla successione in tutti i modi possibili di 4 perle di colore diverso: i quattro diversi nucleotidi che sono formati dalle basi A, T, G, C. (Per approfondire questo tema, vedi della stessa autrice l’articolo del numero di riflessi di novembre 2009).
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