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La lunga storia di Carlo e Irene era cominciata con il progetto di nozze tra i loro due figli. E certamente non c’è da stupirsi se, in tanta tempesta, quel matrimonio naufragasse già ai primi soffi di vento contrario e cioè quando Irene tentò di dare man forte alle ultime resistenze longobarde in Italia e contemporaneamente brigò per mettere in moto l’apparato di Nicea.
Vi chiederete di chi stiamo parlando… Ma di Irene, imperatrice di Bisanzio, e di Carlo Magno, re dei Franchi.
Correva l’anno 780 quando Leone IV, imperatore d’Oriente, venne a morte. La sua vedova, Irene, gli succedette come reggente e, temendo una qualche congiura, evento non certo raro in quella corte d’Oriente, pensò di procurarsi un alleato forte al quale ricorrere in caso di necessità. Il re dei Franchi possedeva un esercito invitto e si avviava a completare la conquista dell’Europa. Insomma era l’uomo più potente del mondo occidentale. L’idea di maritare la figlia con il futuro imperatore d’Oriente dovette in qualche modo allettare il re dei Franchi benché fosse notoria la sua forte gelosia per le figlie alle quali negava puntualmente il permesso di matrimonio ad ogni richiesta da parte dei pretendenti.
Le trattative, benché fossero, nel contenuto, semplici affari diplomatici che nella maggior parte dei casi servivano solo a prendere tempo, furono comunque motivo di avvicinamento tra due potenti imperi. Questa sorta di alleanza prematrimoniale serviva infatti ad Irene come deterrente verso i fratelli del marito che tramavano nell’ombra per usurpare il trono al nipote Costantino e, allo stesso tempo, dava prestigio all’immagine di Carlo che in quegli anni era in piena ascesa politico-militare.
Ma i contrasti scaturiti dal concilio di Nicea crearono una brusca sterzata nella politica estera di Irene, producendo una frattura apparentemente insanabile. I dignitari bizantini, che avevano avuto l’incarico di istruire la giovane Rotruda ai suoi doveri di imperatrice, batterono rapidamente in ritirata alle prime avvisaglie dell’uragano. Erano stati ospiti della corte franca per sei anni: tanto era durata la fragile armonia tra Carlo e Irene così come impalpabile fu anche il conflitto tra di loro che durò su per giù altrettanto prima di placarsi.
Le linee di quel rapporto rimasero sempre capricciose e incostanti, potremo dire di natura femminile non soltanto per il temperamento di donna Irene, ma anche per l’animo con cui Carlo stesso intendeva quel singolare duello di poteri, durante il quale, anche nei momenti di contrasto più accaniti, non riusciva a dimenticare che aveva per avversario una femmina bella e astuta. Si pensi che a quel tempo la donna, se non era madre amorevole e preveggente di un santo oppure monaca, era considerata tendenzialmente una figura subdola, preda costante dei sensi e di una scatenata emotività, destinata a corrompere gli uomini allettandoli con i piaceri della carne.
Dunque attrazione e odio, ira e accondiscendenza, desiderio di vendetta e di pace; i medesimi passaggi, gli stessi contrasti di una relazione sentimentale.
Relazione che in realtà non ci fu, anche perché i due non si incontrarono mai, nè Carlo vide mai il volto di questa rivale tanto sospirata. Relazione che restò librata sulle ali del tempo, senza giungere a coronamento ma neppure scomparire, come il volo di un uccello volubile ed esitante incerto se gettarsi sulla preda e, allo stesso tempo, timoroso di esserne a sua volta ghermito.
Sono assai strane le vie di sentimenti così inafferrabili che percorrono l’esistenza di chi li vive come l’alito di vento che entra in una vallata.
Fu la tragedia del potere a riavvicinare Carlo e Irene, la lotta che entrambi dovettero affrontare per non essere cacciati dal trono proprio dalle creature che avevano generato.
Due storie parallele, anche se assai diverse nella ragione dell’usurpazione, poiché, nel caso di Irene, la legittimità stava dalla parte del figlio mentre, nel caso di Carlo, stava dalla sua. Ma dissimili riguardo al loro corso e alla durezza della repressione, che fu esercitata in modo molto più crudele dalla Signora di Bisanzio mentre da Carlo fu vissuta con senso d’amarezza e in forma più umana.
Le due sventurate vicende cominciarono nella famiglia franca ed ebbero per protagonista il primo degli ormai numerosi figli di Carlo Magno, quell’infermo e sgraziato erede che egli ebbe dalla sposa dei suoi anni giovanili, Imiltrude, quando ancora la corona reale cingeva la testa di suo padre, Pipino il Breve.
E proprio di suo padre gli aveva dato il nome in omaggio alla continuità delle generazioni. Ma il bimbo era afflitto dalla deformità con la quale era nato tanto che tutti lo chiamavano Pipino il Gobbo. Nonostante fosse il primogenito, e la primogenitura venisse considerata una scelta di Dio, l’anormalità fisica lo escluse dalla successione. Il giovane visse sempre a corte come un isolato, confinato nelle stanze più lontane, senza onori nè speranze.
Quando vennero al mondo gli altri fratelli, in realtà fratellastri perché figli di altre madri, i favori e le attenzioni si riversarono su di loro e da lui ci si allontanò ancora di più.
Ad uno dei figli di Ildegarda, terza moglie di Carlo, fu dato persino il suo nome infatti fu battezzato in Laterano dal Papa Adriano IV con il nome di Pipino e nominato re dell’Italia longobarda fin dai suoi primi anni di vita. E agli altri maschi, nati da quel matrimonio, toccarono i titoli più insigni, corone di re e di duchi con onori e benefici.
Mentre Pipino il Gobbo, più anziano di tutti loro, non aveva ricevuto nemmeno la distinzione di conte. La sua era una vita in ombra, tormentata da scherni e da umiliazioni. A parte la deformità, egli era assai bello di viso e, dicono i cronisti, anche molto avveduto, sveglio di mente, con l’acutezza e la sensibilità di chi è condannato dalla sorte e porta in sè lo spirito di rivolta contro le iniquità della vita che facilmente si tramutano in sentimento di ingiustizia verso chi gli nega diritti forse impossibili da ottenere.
Carlo era un sovrano potente, certamente amato, anche se non sempre da tutti con la stessa fedeltà. In particolare non dalla nobiltà del suo vasto dominio, nella quale era rimasta la nostalgia della spartizione, quando una parte del regno franco era governata dal fratello di Carlo, Carlomanno, i cui territori alla sua morte prematura Carlo Magno si annesse.
Carlo aveva in quella occasione annientato rapidamente ogni opposizione, imponendosi con autorità come unico detentore del potere. Indubbiamente vi era molto dispotismo il lui in quanto quello, considerando la legittimità dei diritti, poteva essere considerato un atto di usurpazione nei confronti degli eredi del fratello difficile da cancellare nell’animo di coloro che si erano sentiti privati della speranza di privilegi e ricchezze.
Gli storici più attenti e meno trasportati dai tratti mitici e celebrativi della vita di Carlo hanno messo l’accento sul dispotismo, spesso pesante e spregiudicato, del suo governo.
Nel 785 e 788 vi erano già state congiure contro di lui. La prima nelle regioni orientali della Germania, proprio nei territori che, al tempo della divisione, erano toccati al fratello e l’altra in Baviera, entrambe soffocate nel sangue.
Proprio mentre, nel 792, sedava altri disordini nelle steppe danubiane scoppiò il dramma del figlio deforme. Questa volta non era soltanto un problema della periferia che cercava di scrollarsi di dosso il peso del potere centrale. Pipino il Gobbo portava la minaccia direttamente contro il trono anche se lui rappresentava soltanto lo strumento di ambizioni e vendette che serpeggiavano alla corte di Carlo che avevano trovato, nei rancori di quel figlio insoddisfatto, il punto di aggancio più avanzato.
L’anima del complotto era infatti il conte Teodaldo, nobile palatino, che in verità aveva intrigato con molta scaltrezza e senza sollevare sospetti mentre Carlo Magno era lontano, nelle pianure della Pannonia. Ma un monaco, saputo della congiura, si recò da Carlo a riferire ciò che accadeva a corte. Carlo Magno ne rimase impietrito: il tradimento di un figlio era una grave sciagura; per lui, che si considerava il paldino della cristianità, quella triste storia rappresentava qualcosa di deprecabile e funesto che spezzava perfino la solidità della sua morale. Tuttavia non ebbe il coraggio di decretare la morte del figlio. Lo fece relegare nell’abbazia di Prüm, monaco per forza tra le selve dell’Eifel, come in una lunga sepoltura.
La parallela tragedia del figlio di Irene, che sopravvenne in quegli stessi anni, fu invece a ruoli rovesciati. Era Costantino, il figlio, ad avere diritto al trono ed era la madre, Irene, l’usurpatrice che si rifiutò di cedere le insegne del comando quando Costantino ebbe raggiunto la maggiore età. Anche a Bisanzio si formarono due partiti in favore dell’uno e dell’altra, acerrimi e spietati nemici tra loro.
Era in gioco la carica di Imperatore che significava un potere immenso. Le fazioni erano scatenate più per interesse che per fedeltà. I fratelli del defunto Imperatore, che aveva lasciato vedova Irene, questa volta si schierarono con lei, mentre i generali dell’esercito, in Asia Minore, proclamarono sovrano Costantino.
Il figlio cacciò la madre da Bisanzio e fece mozzare la lingua ai fratelli del padre. Molta crudeltà e molto sangue segnarono la violenza delle vendette. Gli animi erano ottenebrati dall’odio e, poiché Irene era più fredda, più risoluta e più spietata, la vittoria finale fu sua.
Il 15 di agosto del 797, quando il sole d’estate era più alto, Costantino fu trascinato in catene nel palazzo sul Bosforo, portato al cospetto della madre e, per suo ordine, privato della vista poiché negli occhi gli furono conficcati due ferri roventi.
Un’altra eterna sepoltura, assai più feroce di quella che Carlo aveva inflitto a suo figlio. Bisanzio aveva molti secoli di civiltà alle spalle e la raffinatezza, si sa, può raggiungere livelli di spietatezza molto maggiori della barbarie.
Quando Carlo Magno ebbe notizia di quel delitto rimase turbato. Il principe, accecato dalla propria madre, era stato lo sposo promesso di sua figlia Rotruda. La ruota del mondo, la sorte degli uomini, gira di continuo e imbocca svolte sempre nuove e imprevedibili congenerando grande instabilità per il futuro. Solo le leggi del potere restavano ferme come ancore nel mare tempestoso. C’era chi doveva inesorabilmente applicarle e chi doveva altrettanto inesorabilmente subirle. Carlo e Irene appartenevano alla prima esigua schiera. E la loro vita, accanto ai brividi del comando, non poteva non essere piena di mestizia, violenze, tradimenti e di ineluttabili vendette.
Carlo comparava il dramma di Irene al suo, all’animo con cui aveva dovuto decidere la clausura perpetua del figlio; il suo non doveva essere stato molto dissimile da quello che aveva portato Irene a far accecare Costantino. Carlo tendeva più a soffermarsi sull’eguaglianza di entrambi nella sventura che non su sentimenti di pietà nei confronti del destino dei figli. E poiché, grazie a quei crudeli travagli, sia il potere di Carlo che quello di Irene si erano rafforzati, egli si sentiva più portato a tenere in considerazione questa ultima realtà, così come gli scampati da un naufragio non pensano più a coloro che sono periti e all’orrore della loro morte ma al miglior modo di riprendere la navigazione, se possibile, con maggior sicurezza.
Anche lo sguardo all’orizzonte di Irene, dopo la tempesta, doveva essere il medesimo, se subito cercò di ristabilire buoni rapporti con Carlo. Si sa… la politica è l’arte del dimenticare, un dimenticare scambievole poiché presuppone che anche gli altri dimentichino.
Ecco che gli ambasciatori ricominciarono a fare la spola tra Bisanzio e il Reno con doni e proposte. Da entrambi desiderata e necessaria, la nuova pace fu sottoscritta nel 798. La parte più debole, che era quella di Irene, accettò senza troppo discutere le condizioni più dure che, in pratica, si riducevano a riconoscere lo status quo per la semplice ragione che non si era in grado di mutarlo. Con quali forze Bisanzio avrebbe potuto mai scacciare i Franchi dal principato di Benevento o dall’Istria? Nel nuovo trattato quei territori erano dichiarati parte del Regno d’Italia sotto la sovranità di Carlo Magno.
Ed egli, dal canto suo, si impegnava a rispettare il dominio bizantino in Croazia, in Sicilia e in Calabria, nella terra d’Otranto, a Napoli ed Amalfi; a tanto si era ridotto il potere bizantino in occidente!
Era il trionfo di Carlo Magno, l’onore delle armi reso alla sua vittoria, alla sua ostinata volontà, alla fiducia che aveva nei valori anche morali della conquista e, al di sopra di ogni altra cosa, in se stesso.
Era questo il momento della tregua, quell’interludio un po’ svagato nella pausa che segue tanto le ore del conflitto quanto quelle dell’amore. Due stati d’animo che continuavano a procedere intrecciati nell’atteggiamento di Carlo verso la rivale di Bisanzio. La donna vinta era diventata più dolce, come è sempre accaduto e come sarebbe stato sempre. Ci sorprenderemmo forse quando, un poco più avanti in questa storia, si parlerà di matrimonio tra il Re dalla spada invincibile e l’Imperatrice dalle vesti color pesca?
Anche il passato ha il suo passato. Carlo e Irene invecchiavano.
Il tempo passò e Carlo, in quel fatidico Natale dell’anno 800, venne incoronato Imperatore dei romani dal papa Leone III e ricominciò l’intreccio.
Nei primissimi anni del nuovo secolo, vi fu un continuo andirivieni di messi e ambasciatori tra Bisanzio e Aquisgrana. Bisanzio temeva la frattura con l’Occidente, una separazione troppo somigliante ad un isolamento mentre le sue fragili forze erano assediate dagli Arabi e dagli Slavi. Irene, scaltra e flessibile nelle tempeste, tentava ora di ricavare il consolidamento di un’alleanza. L’avversario, troppo potente per contare di sconfiggerlo, può essere catturato con le arti dell’amicizia e così la sua forza, non più minaccia, diventare sostegno.
Non sappiamo questa esca quanto fosse invitante ma Irene certamente lo doveva sapere. I suoi doni riempivano Aquisgrana: i damaschi, gli incensi, gli argenti traforati e leggeri come piuma.
E da queste lievi intimità ecco spuntare una domanda, sussurrata da bocca a orecchio nei colloqui privati: perché non pensare a Carlo ed Irene come consorti?
Carlo era vedovo da qualche anno. Irene era sola. Avevano entrambi l’età dell’autunno, ma ancora il calore del tramonto. Carlo di poco oltre i sessanta, Irene appena al di qua dei cinquanta. L’amore, se anche di questo si fosse voluto parlare, poteva non essere condannato dalla politica. Sarebbe venuto meno il pericolo di conflitti tra occidente ed oriente e l’unità dell’Impero, che l’incoronazione di San Pietro aveva spezzato, si sarebbe così ricomposta nell’unione di due sposi con qualche filo d’avorio nelle chiome.
Ma il destino non volle questo.
Poco dopo l’arrivo dei messi di Carlo nel palazzo d’Oriente sul Bosforo, dove dimoravano Irene e la sua corte, scoppiò una rivolta sanguinosa. Irene fu deposta e relegata in un convento nell’isola di Lesbo. Non era donna da sopportare la sconfitta e, dopo breve tempo, morì nella sua prigione. Carlo dunque era giunto assai vicino al frutto dei suoi segreti desideri ma il destino gli fece mancare la sposa all’appuntamento e questa volta fu per sempre. L’imperatore restava solo.
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