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Giovanni Ponti (Gio) nacque a Milano nel 1891. Fu costretto ad interrompere gli studi al Politecnico a causa della prima guerra mondiale, durante la quale prestò servizio militare con il grado di capitano, meritandosi una medaglia di bronzo e la croce di guerra. Nel 1919 riprese a frequentare l’università e due anni dopo si laureò in architettura. L’esordio professionale di Ponti è connesso al nome di Emilio Lancia, suo socio durante i primi anni di attività. I due progettisti erano legati dalla comune ammirazione per il maestro milanese Giovanni Muzio, che auspicava un ritorno alla misura e alla composta eleganza di matrice neoclassica, ormai definitivamente tramontata a favore dell’eccessiva esuberanza formale del Liberty. Nel progetto per l’abitazione destinata alla famiglia Ponti, i due giovani architetti interpretarono la componente archeologica tipica del Neoclassicismo milanese con sottile ironia e gusto raffinato per il dettaglio. Questa distinta palazzina, terminata nel 1926, sorge in un lotto vagamente trapezoidale risultante dall’intersezione di tre strade: via Eupili, via Massena e via Randaccio, dove al civico 9 è collocato l’accesso principale. L’edificio asseconda questa forma irregolare sviluppando su quattro piani una pianta poligonale del tutto anomala. Tramite il portone d’ingresso si accede ad un piccolo ambiente, in fondo al quale alcuni gradini sollevano il pianterreno di circa un metro sopra al livello del suolo. Da qui, un’ampia scala conduce ai vari piani del fabbricato e immette, tramite un’anticamera ovale, nei diversi appartamenti. Larghe porte scorrevoli suddividono gli ambienti principali con armonia e dinamismo, secondo l’esempio della pianta libera corbusiana. Negli anni immediatamente successivi alla laurea Ponti aveva lavorato come art director per la produzione ceramica Richard Ginori, sviluppando uno spiccato gusto per i motivi ornamentali, che trovò libero sfogo nella decorazione esterna dell’edificio. Obelischi, timpani, nicchie, dentellature e urne si affrancarono dall’immagine bidimensionale disegnata sul vasellame e, acquistando tridimensionalità, furono impaginati con elegante euritmia sulle quattro facciate della palazzina in via Randaccio. La propensione per il decorativismo accomuna molti dei progetti pontiani di questo periodo, anche se è opportuno notare che tale processo creativo si inserisce all’interno di una ricerca sul tema dell’abitazione che, negli anni successivi, lo porterà a concentrarsi sulle qualità spaziali della casa nella sua ripetizione seriale.
Tra 1926 e ’27 l’architetto fu impegnato in una serie di concorsi e progetti tra Milano (Monumento ai caduti in guerra) e Venezia (Sistemazione della cupola e del salone centrale del padiglione italiano alla Biennale). Qualche tempo dopo, consigliato dall’amico Ugo Ojetti, Ponti accolse la proposta dell’influente predicatore Barnabita, padre Giovanni Semeria, che lo invitava a fondare una rivista capace di donare nuova identità alla borghesia imprenditoriale e delle professioni. Nel gennaio del 1928 uscì il primo numero di “Domus” con l’editoriale intitolato “La casa all’italiana”, manifesto divulgativo di un ideale nuovo e al contempo legato alla tradizione, come suggeriva lo stesso titolo della testata. L’obiettivo era interessare il lettore ai problemi stilistici, spirituali e pratici dell’abitazione moderna svolgendo una sorta di educazione sentimentale della società italiana, che si abituava ai temi dell’architettura e dell’arredamento contemporaneo con articoli agili, intriganti e persuasivi. Le palazzine in via De Togni, progettate e realizzate tra 1931 e ’36 da Ponti e Lancia, costituiscono la risposta italiana alla ricerca funzionalista sulla casa in serie, risolta in chiave urbanistica. Il prenome domus (Julia, Carola, Fausta) chiarisce la natura classico-mediterranea che accomuna i tre edifici, studiati per la classe medio borghese, la stessa che costituiva l’affezionato target di “Domus”. Questa cultura rifiutava l’estrema ed esclusiva economia dello spazio teorizzata dai razionalisti tedeschi e riassunta nello slogan existenzminimum, a favore di una filosofia progettuale che rispettasse le fondamentali esigenze della vita concedendo «spazio, quiete, agevole riposo, libertà». Questi propositi si realizzarono con la costruzione delle domus di via De Togni, dove le tradizionali misure di corridoi e disimpegni furono ridotte per concedere maggiore ampiezza alla zona giorno, un unico ambiente di 25 mq suddiviso da una parete attrezzata alta 130 cm. Questo elemento innovativo non impedisce la sensazione di unicità dello spazio, ma ad una lettura planimetrica genera due locali. I prospetti lineari intonacati ocra, rosso mattone e verde rappresentano la proiezione esterna delle soluzioni spaziali adottate negli interni, che superano la concezione decorativa delle facciate di via Randaccio. Infine, balconi, verande e terrazze (indispensabili per la qualità della vita, secondo la filosofia mediterranea del progettista) si affacciano sulla strada aggiungendo una funzione urbanistica: divengono parte integrante delle facciate come pareti verticali di una strada giardino, specialmente nelle successive Domus Livia, Serena, Onoria e Aurelia in via Letizia e via del Caravaggio.
Nel 1933 Ponti stese il progetto per l’istituto di matematica della Città universitaria di Roma (La Sapienza) e appena un anno dopo vinse il concorso indetto a Padova per la costruzione del palazzo della Facoltà di lettere, oggi conosciuto come Liviano. Se nel precedente edificio romano dovette adattarsi alle direttive urbanistico-costruttive di Marcello Piacentini, nell’intervento Padovano l’architetto si sentì completamente libero di esprimere l’essenza della cultura classica secondo la propria visione architettonica, che fu molto apprezzata dal committente Carlo Anti, rettore dell’ateneo. La sinergia fra queste due colte e raffinate personalità fu tale da rendere possibile la scelta unanime degli artisti chiamati ad interpretare il tema proposto come soggetto per l’affresco dell’atrio: la collaborazione delle arti sotto il segno dell’architettura, ideale costantemente perseguito da Ponti. Il vincitore di questo concorso fu Massimo Campigli, il quale realizzò una monumentale decorazione parietale che, come il bando richiedeva, funge da introduzione alla cinquecentesca sala dei Giganti, cui si connette l’edificio pontiano. L’intera costruzione è articolata in due blocchi funzionali distinti, l’uno riservato alle aule, l’altro ai dipartimenti. Il bellissimo atrio, movimentato da un complesso gioco di scale, rappresenta il fulcro della struttura. Il secondo piano è destinato al museo archeologico voluto da Anti e ideato in collaborazione con Ponti: la copertura di questo reparto si apre in un lucernaio, in una serie di shed e infine in un impluvium. Lo stesso architetto decorò personalmente la parete di fondo dell’aula magna e lo scalone che conduce allo studio del rettore all’interno del Bo, edificio del XVI secolo dove ha sede il rettorato dell’università patavina, inaugurando il progetto di restaurazione e ammodernamento dell’antico palazzo terminato da Ettore Fagiuoli nel 1943.
Casa Laporte, in via Brin 12 a Milano, riassume e porta a compimento le innovazioni spaziali introdotte da Ponti nell’ambito della tipologia residenziale. Fu realizzata nel 1936 al termine del sodalizio con Lancia, concludendo idealmente il ciclo edilizio avviato con le domus di via De Togni. Le innovative soluzioni adottate in questo edificio, come la zoccolatura lapidea del basamento, l’ingresso decentrato, la riflessione sugli elementi d’arredo integrati alla struttura della casa, il tema della villa sospesa (l’appartamento all’ultimo livello svincolato dal piano tipo), rappresentano l’apice delle sue ricerche negli anni Trenta, preannunciando le aeree strutture degli anni Cinquanta. Inoltre, la volumetria compatta di casa Laporte e la proporzione distributiva delle aperture sul piano ininterrotto dei prospetti costituiscono il punto di maggior accordo con l’espressione figurativa del coevo Razionalismo. L’edifico comprende tre appartamenti di cui l’ultimo si sviluppa su due livelli, mentre nel sotterraneo sono collocati garage, lavanderia, cantine e impianto di riscaldamento centralizzato. Le piante dei singoli alloggi, differenti per ogni piano, sono distribuite intorno all’ingresso e suddivise in due aree: la zona notte, che circonda un disimpegno con armadiature incassate a muro, e la zona giorno, un unico ambiente di grandi dimensioni che unisce la sala da pranzo al salotto. Il terzo piano, invece, è costituito da un soggiorno a doppia altezza sul quale si apre il giardino d’inverno: da qui si raggiunge la terrazza esterna, interpretazione pontiana del tetto-giardino corbusiano. In questa zona, coperta da una tenda scorrevole per ombreggiarla durante le afose estati milanesi, si trova una vasca d’acqua, un campo di sabbia e l’orto celati alla vista dalla strada mediante pareti esterne che rendono la terrazza una vera stanza a cielo aperto.
Rispondendo alle esigenze di Guido Donegani, fondatore e presidente della società Montecatini di Milano, Ponti realizzò due palazzi per ospitare gli uffici amministrativi dell’azienda: il primo, realizzato tra il 1935 e il 1938 in collaborazione con Fornaroli e Soncini, il secondo iniziato molti anni più tardi e terminato nel 1951 su un lotto contiguo al precedente, tra via Turati e largo Donegani. I tre architetti riuscirono ad inserire nel progetto tutte le innovazioni tecnologiche più recenti così il primo palazzo Montecatini divenne l’emblema della modernità milanese nonché una sorta di catalogo tridimensionale dei prodotti della ditta, alluminio e marmo.
Al 1938-’39 risalgono due progetti, purtroppo rimasti su carta, legati dal comune interesse naturalistico: l’albergo nel bosco di Capri e il Palazzo dell’acqua e della luce per il concorso indetto dall’E42 di Roma (Esposizione universale del 1942).
Nel 1941 il maestro lasciò la direzione di “Domus” per fondare la nuova rivista “Stile” e nel 1947 ottenne, insieme a Fornaroli, la commissione del secondo palazzo Montecatini. L’anno dopo Ponti tornerà a dirigere “Domus” e, legando definitivamente il suo nome a questo marchio, conferì alla testata l’enorme prestigio di cui ancora oggi gode.
L’Istituto di cultura italiana a Stoccolma fu finanziato da una singolare figura dell’imprenditoria italiana: Carlo Maurilio Lerici, cui l’edificio venne poi intitolato, possedeva diverse acciaierie ed era anche archeologo. Il progetto ideato da Ponti per l’occasione rispecchia il crescente interesse dell’architetto per la forma finita, che dal 1953 definì una sequenza unitaria di opere tra cui la Fondazione Garzanti a Forlì, i progetti per l’Università di São Paulo in Brasile, le ville in Venezuela e il grattacielo Pirelli. La Fondazione Lerici rappresenta un omaggio al paese ospitante e testimonia concretamente gli ottimi risultati che si possono ottenere attraverso la politica degli scambi culturali. Questa costruzione divenne un brano di Italia in Svezia, caratterizzata dalla natura solare e mediterranea che investe ogni dettaglio, dalla composizione volumetrica alle scelte cromatiche, fino all’arredamento. L’asseto definitivo della fondazione, inaugurata nel 1958, è costituito da due volumi di altezza e pianta differenti posizionati ortogonalmente l’uno rispetto all’altro e collegati tramite un piccolo ambiente finestrato. Il blocco più grande, la cui forma allungata prelude quella a diamante del Pirelli, è alto tre piani e ospita uffici, aule e alloggi; il secondo è di un solo livello e accoglie l’auditorium, la cui copertura nervata è opera di Pier Luigi Nervi. Le pareti esterne dei due blocchi, costellate di aperture irregolari, non sono saldate tra di loro: grazie a questo espediente la copertura dell’edificio sembra fluttuare nell’aria, retta soltanto dalla struttura in calcestruzzo, ammantata di piastrelle bianche a mosaico e a diamante.
Intorno al 1953 Ponti disegnò il progetto per Villa Planchart a Caracas, in Venezuela, che fu ultimata nel 1957. La casa sorge sulla cima di una dolce collina da cui si gode di un suggestivo panorama della città e della valle del Guaire. Come l’Istituto Lerici questa costruzione rappresenta la creatività, l’arte e la tecnica italiana all’estero. Entrambi sono frutto della medesima stagione creativa, durante la quale il maestro volle sperimentare varie soluzioni per donare leggerezza alla struttura che venne anche dotata di un sistema per l’autoilluminazione notturna. Questo progetto, inoltre, rilancia il tema della casa all’italiana alla luce della nuova tesi sulla forma finita. Villa Planchart, a differenza dei modelli americani di Wright, sviluppa il tema della casa pompeiana: il patio assume la funzione di raccordo tra i vari spazi vuoti e la dinamica delle prospettive interne è enfatizzata dall’abolizione dei muri interni. L’invisibile telaio in calcestruzzo armato, infatti, permette la costruzione di pareti staccate dalla scatola muraria, leggermente dischiuse rispetto alla struttura in modo tale che di notte un sottile filo di luce artificiale sembri farle galleggiare nell’oscurità. Gli esili diaframmi che suddividono parzialmente gli ambienti interni consentendo inediti scorci visuali, divengono pareti attrezzate che celano armadiature, come nelle domus milanesi. L’opera fu completata da Ponti che progettò e scelse anche l’arredamento della villa: i mobili autoilluminanti e a scomparsa estendono la concezione pontiana di attrezzatura domestica, introducendo nella casa opere d’arte e d’artigianato. Gli interni di casa Planchart ospitano il meglio della creatività e della produzione italiana di quegli anni: quadri di Morandi e di Campigli, opere di Melotti e di Rui, vetri di Venini e Seguso, ceramiche di Gambone, sete di Ferrari, sedie e poltrone Cassina, oggetti di Danese, mobili di Giordano Chiesa e lampade Arredoluce.
I primi studi per il grattacielo Pirelli, sede del famoso gruppo industriale, risalgono al 1956 e rappresentano una pietra miliare nell’evoluzione architettonica del suo creatore. L’edificio fu inaugurato nel 1961 e diede corpo, in ultima istanza, alla sua idea di forma finita, chiusa, immutabile come un cristallo. Il grattacielo è una struttura isolata, che sorge su un lotto pentagonale affacciato sul piazzale della stazione, formata da due valve accostate e socchiuse sui lati, per un’altezza di 127,10 metri. La struttura portante è concentrata in pochi pilastri che emergono dal curtain wall vetrato, rastremandosi verso l’alto. In pianta si possono notare i due elementi poligonali indipendenti ma collegati, alle estremità laterali, da una serie di balconcini, indispensabili per conferire equilibrio statico. Al 31° piano una galleria vetrata praticabile, sovrastata da una copertura sospesa, conclude l’edificio. Il grattacielo è stato oggetto di un accurato restauro in seguito all’incidente aereo del 2002, che ne aveva distrutto il 26°piano. Dello stesso anno è il progetto per le Torri di Montreal, pubblicato su “Domus” come riflessione sulla necessità di trovare una dimensione umana del costruire. A differenza del grattacielo Pirelli, che doveva rappresentare visivamente la dimensione unica e totale dell’azienda, nelle torri canadesi la dimensione da rappresentare esteriormente doveva essere quella del singolo appartamento. Così, nel progetto per i grattacieli di Montreal, ogni singola unità familiare si distingueva in facciata attraverso composizioni di finestre, balconi logge e terrazze di molteplici misure. Il complesso, che avrebbe dovuto essere composto di cinque elementi accostati in cemento armato dai quali far aggettare le solette, non fu mai realizzato.
L’edificazione della concattedrale di Taranto, fortemente voluta dall’arcivescovo Giuseppe Motolese, rispondeva alla necessità di creare un nuovo centro di fede nella nuova periferia residenziale della città, che potesse affiancare spiritualmente l’antica cattedrale di San Cataldo. L’Istituto Internazionale di Arte Liturgica (IIAL) affidò l’incarico a Ponti, già autore del convento del Carmelo a Sanremo, delle chiese milanesi San Luca Evangelista, San Francesco al Fopponino e Santa Maria Annunciata dell’ospedale San Carlo Borromeo. Ultima delle architetture religiose pontiane e culmine nella ricerca di leggerezza e luminosità negli edifici, la costruzione tarantina rappresenta la sua personale interpretazione dell’arte come espressione di una naturale religiosità. La Grande Madre di Dio è l’esito di un lungo processo di semplificazione delle forme che giungerà a trasformare in levità immateriale la concretezza del cemento armato. Il progetto iniziale presentava un edificio compatto dalla pianta a diamante, ideale asse prospettico che collegava la città vecchia alla nuova. La disposizione iniziale fu progressivamente modificata fino a configurare la forma attuale della chiesa: un’unica navata a pianta rettangolare, sulla quale s’innalza un’aerea vela traforata, alta 53 metri. Questo elemento è costituito da due pareti di cemento armato distanti fra loro un metro e attraversate dall’aria e dalla luce, che penetra ad illuminare la navata, grazie a 80 aperture gemelle di forma geometrica, tra le quali prevale l’amata forma a diamante. Emergendo dalla navata come un retabolo popolato da figure angeliche, la vela è un segno molto riconoscibile per i fedeli della città e ricorda il visionario progetto del 1968 per la cattedrale di Los Angeles.
Progettata nel 1969 per l’industriale Daniel Koo la villa a Marine County in California rimase soltanto un elaborato ideale sviluppato con molti disegni e pubblicato sulle pagine di “Domus”. L’articolazione degli spazi interni è insolita, suddivisa da diaframmi curvilinei che si aprono su grandi ambienti e su stretti corridoi, definendo cinque camere da letto e un largo soggiorno. Anche in questo progetto era prevista un’estesa finitura delle superfici con piastrelline in ceramica che dovevano ricoprire i pavimenti, la base muraria delle sedute fisse da esterni, le mensole e le testate dei letti.
Nel 1972 il Denver Art Museum concluse il ciclo di architetture generate dalla teoria della forma finita. L’architetto milanese, in collaborazione con James Sudler e Joal Cronenwatt, intraprese un coraggioso intervento di redesign sulla struttura preesistente, applicando ad una scala inedita la sua idea di pareti prive di gravità che rompono la chiusura della scatola muraria. Agganciate ad un telaio di pilastri e setti di calcestruzzo armato, tagliate da fenditure geometriche disposte irregolarmente e rivestite di piastrelle a diamante, esse riflettono i raggi solari e si tramutano in un evanescente recinto che inquadra il cielo. Concludendo questo intervento Ponti arrivò a giustapporre due cubi di sei piani, ai quali si aggiunge il volume generato dalla pianta ovale dell’auditorium, il tutto unificato dalla cangiante pelle in ceramica. In un articolo pubblicato su “Domus” al termine dei lavori, l’architetto parla dell’edificio come di una cittadella italica sorta per difendere i tesori della cultura: «dicono che il Museo è un castello italiano».
Gio Ponti morì a Milano nel 1979. Aveva 88 anni e nonostante la sua vista si fosse ridotta ad una sfocata visione, non aveva mai smesso di lavorare. Intorno a lui, nel disordine dell’appartamento che aveva costruito nel 1957 come pubblico autoritratto e che era diventato il suo atelier, figure colorate tracciate con mano ancora agile popolavano grandi fogli di perspex. Ovunque dominava la figura di un grande angelo con le ali dispiegate, disegnato per completare il progetto della cattedrale di Los Angeles. Così, questo grande artista se ne andò circondato dagli spiriti che avevano da sempre ispirato la sua arte.
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