:: STORIA    
 

FEDERICO II DI PRUSSIA: L’ANTIMACCHIAVELLI, VERITÀ O DOPPIEZZA?
Luigi la Gloria

     
 

E’ il 1736 quando l’architetto Georg Wenzeslaus, barone di Knobelsdorff, completa la costruzione del castello di Rheinsberg. Federico II ci si trasferisce subito, ben contento di trovarsi lontano dal padre-tiranno Federico Guglielmo, il re sergente. A quel tempo i rapporti con la moglie Elisabetta Cristina di Braunschweig erano ancora buoni, almeno formalmente, e la vita scorreva dunque alquanto piacevole. Le giornate di Federico trascorrono in una cerchia di amici allegri e festosi tra briose conversazioni sulla musica, il teatro e la lettura di versi che egli stesso compone con distratta facilità. Conduce, insomma, la vita spensierata di un giovane principe che deve dimenticare gli anni cupi del dissidio con il padre, la prigionia e la morte di amici carissimi tra cui il fedele Hans Hermann von Katte, che aveva cercato di aiutarlo nell’improbabile fuga in Inghilterra, alla cui decapitazione, ordinata proprio dal padre, era stato costretto ad assistere.
Nonostante l’ambiente che lo circonda sia sereno e gioioso, egli ruba però ore alla notte, con grande preoccupazione dei medici, assillato dal desiderio ardente di acquisire conoscenza.
Benchè sia naturalmente portato alle lettere e possegga una perfetta conoscenza della lingua francese, che considera la sua vera madre lingua, non conosce il latino perché il padre Guglielmo ne ha ritenuto inutile lo studio per il futuro re di Prussia. Educato da dame francesi e da sua madre, autentica appassionata della cultura transalpina, è alla Francia che si volge per colmare le sue lacune, per uscire dall’ambiente prussiano retrogrado e, allo stesso tempo, per aggiornarsi sulle nuove correnti che stanno sconvolgendo l’Europa.
E’ così che nasce la sua amicizia con Voltaire, il più vistoso esponente dell’Illuminismo e il più pronto a cogliere i vantaggi di un’amicizia regale. Federico, che lo considera il figlio dello spirito, il padre dell’illuminismo e di ogni cultura antieroica, legge avidamente i suoi scritti e li critica con delicatezza, si complimenta con lui per l’opera su Luigi XIV, ma allo stesso tempo lo rimprovera di essere stato troppo generoso nel suo giudizio su Macchiavelli di cui Voltaire non aveva capito il pensiero esaltandolo in maniera piuttosto dubbia e considerandolo più uno scrittore militare che un genio politico. Al contrario Federico si rende conto della sua importanza e si sente spinto a partecipare alla diatriba secolare sulla ragion di stato ed in particolare proprio sul macchiavellismo.
Il 22 marzo 1739 scrive all’amico facendogli conoscere il suo progetto di stendere un lavoro proprio sul Principe di Macchiavelli. Voltaire, da perfetto e servile cortigiano, si dichiara subito pronto ad aiutarlo e gli indicherà gli errori di logica, ne ripulirà lo stile e lo inviterà alla moderazione nei giudizi su regnanti in vita che potrebbero comprometterlo. In fine ne curerà la stampa e gli consiglierà il titolo: l’anti Macchiavelli, benchè uguale a quello dell’opera di Innocent Gentiller, accanito avversario del macchiavellismo.

Grazie proprio a questa collaborazione con l’illuminista francese, nasce un lavoro nel quale non è difficile separare il contributo di Voltaire dallo stile genuino dell’autore che si caratterizza per
una patina di superficiale ottimismo e di fede ingenua nella ragione umana. Interessante è la sua definizione dello stato come conseguenza di un contratto, la non ammissione dell’origine divina del potere regio, la trasformazione del sovrano nel custode e protettore del popolo.


L’Antimacchiavelli esce a Londra e all’Aia nel 1741 suscitando immediatamente un enorme interesse in tutta Europa anche perché è visto come il programma del principe salito al trono soltanto un anno prima. Saprà realizzare i suoi programmi il giovane re di Prussia? Certamente no e, come scrisse più tardi Thomas Mann, si è trattato solo di un’esercitazione letteraria. Saranno in pochi ad affermare che per Federico gli ideali di umanità non sono solo un semplice passatempo per ore di ozio “filosofico”, bensì un’aspirazione profonda, che urta violentemente contro le leggi della ragion di stato dando la sensazione di ipocrisia, mentre lui vive una dolorosa lacerazione tra idealismo e realtà.
Se esaminiamo con attenzione l’Antimacchiavelli oggi, e cioè alla luce della storia ed eliminando le sovrastrutture culturali, possiamo invece ritrovare il vero carattere del re e il suo autentico programma politico, al quale rimase fedele per tutta la vita. La frenetica attività di Federico II, che non permette a nessuno dei suoi ministri una qual si voglia iniziativa personale, che penetra in ogni campo degli interessi statali, che considera i suoi consiglieri dei semplici esecutori, è già evidente nel capitolo XXII dove fa un’attenta analisi di come, secondo la sua visione, dovrebbe essere il principe.
Il suo ideale di regno florido e potente, non perché vasto, ma in quanto popoloso e ricco di industrie e commercio, fa presagire la sua politica interna: la bonifica delle paludi dell’Oder, l’impulso dato all’agricoltura, le facilitazioni agli immigrati soprattutto dopo la guerra dei sette anni, contro l’Austria di Maria Teresa, che aveva spopolato il paese. L’amore per le arti, che dovrebbero dare alla sua Prussia una supremazia spirituale molto più importante di quella materiale e politica, lo porta alla ricostruzione di Berlino, che assumerà, proprio durante il suo regno, il caratteristico aspetto monumentale rimasto pressoché intatto fino alla seconda guerra mondiale. I suoi interessi artistici e l’ospitale protezione offerta a Voltaire sono la prova che la sua non era sola retorica, ma che egli credeva profondamente nei valori dello spirito, anche se con un atteggiamento un poco ingenuo.
Tuttavia dalla sua opera emerge anche un cupo pessimismo che le teorie illuministiche non sono comunque riuscite a cancellare e che stranamente lo accomuna proprio a colui che sta confutando: il Macchiavelli. La sua cosiddetta tolleranza religiosa, l’esempio più fulgido del suo illuminismo, in fondo potrebbe essere interpretata come la prova del suo disprezzo per l’umanità e le sue futili beghe. Anche l’opinione negativa che ha dei giovani che si arruolano nel suo esercito per disperazione o per spirito d’avventura o per l’incapacità di condurre un’esistenza regolare e ordinata, ci richiama spontaneamente al giudizio di Macchiavelli sull’umanità, considerata semplicemente “vulgo”. Che poi Federico con quelle “canaglie” abbia saputo creare l’esercito più agguerrito e disciplinato d’Europa, ci fa pensare che egli sia dotato di virtù esattamentecome il Principe del Machiavelli.
Interessante è la sua disquisizione sulla guerra difensiva, che può essere tale anche se offensiva, in quanto ha origine da un attacco del nemico. Sarà con questo principio strategico che giustificherà le guerre mosse a Maria Teresa e l’invasione della Sassonia. Ma forse l’affermazione più profonda e sentita è quella che definisce il sovrano il primo servitore dello stato. E’ senza dubbio la sua frase più famosa, la più rivoluzionaria per quel settecento autocratico. In effetti Federico II è davvero stato il servitore del suo popolo, ha rinunciato a qualunque felicità privata vivendo unicamente da sovrano tutto proteso a operare, soffrire e combattere per la sua Prussia.

A questo punto sorge spontaneo il dubbio che L’Antimacchiavelli non sia proprio un’esercitazione letteraria, che questo re credesse davvero negli ideali propugnati nella sua opera e che cercasse di attuarli non per personale ambizione ma per trasformare il suo Paese da semplice marca di confine, perennemente in lotta con le popolazioni slave, in una potenza europea prospera, ricca e importante. Forse gli stava davvero a cuore la felicità dei suoi sudditi; peccato soltanto che fosse lui a decidere in che cosa consistesse questa felicità.

 

Uscita nr. 32 del 20/04/2012