:: SCIENZA    
  MAIS, GENI SALTATORI E UNA SCIENZIATA STRAORDINARIA: I 60 ANNI DEI TRASPOSONI 
Anna Valerio
     
 

Una grandissima figura di scienziata, quella di Barbara McClintok, uno straordinario astro che con la sua luce ha illuminato, nonostante gli ostacoli posti dalla scienza ufficiale, gli anni centrali del XX secolo!
Barbara nasce negli Stati Uniti nel 1902 da una famiglia che capisce ed incoraggia fin da subito le sue propensioni per gli studi di scienza. La sua passione è la genetica ma, all’epoca, quello studio era precluso alle donne così sceglie di studiare citologia, all’interno della quale la genetica poteva essere intesa come disciplina accessoria. E il suo terreno di studio è da subito la “genetica del mais” che la porta a pubblicare un lavoro, nel 1931, nel quale dimostra che, a volte, avviene un vero e proprio scambio fisico di parti tra i cromosomi omologhi (*).
La scoperta è di quelle che aprono una nuova strada ma la genetica è ancora talmente agli albori che essa non viene capita.
Barbara non si dà per vinta e prosegue i suoi studi in diverse Università degli Stati Uniti, sempre focalizzandosi sul mais ed osservando, in particolare, che alcune cariossidi (chicchi) non presentano la stessa colorazione del resto della pannocchia ma sono di colore viola. All’epoca ciò che si sapeva a riguardo era che i geni per il colore dei chicchi del mais erano caratterizzati da due versioni alternative (alleli) (**): quella definita “C” che comportava il colore viola dei chicchi e la “c” che dava assenza di pigmento colorato. Ci si sarebbe aspettato che le pannocchie fossero uniformemente viola oppure incolori ma la colorazione a macchie non era prevista se non ipotizzando che, durante lo sviluppo del chicco, l’allele incolore “c” potesse in qualche modo trasformarsi in quello viola “C” ed originare la macchia.
Questo aspetto del suo studio, già estremamente originale per l’epoca, non è che il presupposto del suo lavoro: la parte veramente innovativa e geniale è l’interpretazione che ella dà di questo dato, infatti intuisce che tale trasformazione è causata da un elemento mobile, che noi oggi chiamiamo trasposone, che, quando si inserisce nel gene, è capace di mutare “C” in “c”, con conseguente incapacità di produrre colore e quando poi se ne allontana, fa rimodificare “c” in “C” ,che diventa nuovamente capace di dare chicchi viola. Questo elemento mobile è da lei chiamato Ds (dissociatore) e, per funzionare, necessita di un secondo elemento mobile, Ac (attivatore).
Questi sono stati i primi due esempi di trasposone descritti nella letteratura scientifica mondiale ed è sorprendente che siano stati proposti in un’epoca nella quale il genoma era ritenuto un qualche cosa di assolutamente immobile.
Nel frattempo, nel 1944, Barbara era stata eletta membro dell’Accademia Nazionale delle Scienze e, l’anno seguente, presidente della Società Genetica d'America. Gli anni successivi ella prosegue i suoi studi sui trasposoni, dimostrando in maniera inconfutabile la loro esistenza e la loro capacità di spostarsi da una posizione all'altra all'interno dei cromosomi e di dare luogo a mutazioni instabili.
Nel 1951 pubblica i risultati del suo lungo lavoro su diverse riviste scientifiche, ma, come purtroppo spesso accade nei confronti di scoperte epocali, la comunità scientifica reagisce con diffidenza o addirittura con ostilità. Era quella un’epoca nella quale alle donne non veniva assegnata la stessa credibilità scientifica che all’uomo e questo non aiutò certamente la McClintock a far accettare i suoi dati, sorprendenti e rivoluzionari, che erano in aperto contrasto con i fondamenti della genetica del tempo, che vedeva i geni come rigidamente localizzati nei cromosomi, senza possibilità alcuna di movimento. Barbara aveva fama di scienziata “difficile”, esigente, riservata, diversa e un po’ eccentrica; in realtà aveva semplicemente un modo tutto suo di intendere il lavoro dello scienziato che è ben espresso dalle sue stesse parole: “La cosa importante è sviluppare la capacità di vedere che un seme è diverso dagli altri, e capire perché e in che cosa consiste questa differenza. Se qualcosa non torna, c'è una ragione, e si tratta di scoprirla. Ciò che per gli altri è frutto di immaginazione o di speculazione, per me è questione di allenamento alla percezione diretta... occorre avere il tempo di guardare, la pazienza di ascoltare ciò che le cose hanno da dire…”
A questo si aggiunga che la sua scoperta precede di ben due anni la pubblicazione della struttura a doppia elica del DNA da parte di Watson e Crick (***) che sarà destinata a cambiare il volto della scienza, pertanto appare ancora più fantascientifica. Ma ella continua ugualmente con i suoi studi fino al pensionamento, nonostante il clima di diffidenza e di dissenso che la circonda.
Solo molti anni dopo, già negli anni settanta, le nuove tecniche di genetica e biologia molecolare hanno reso possibile evidenziare, in molte specie viventi, l’esistenza di quegli elementi mobili che la McClintock aveva descritto nel mais ed allora tutto il suo lavoro viene riconosciuto e rivalutato, tanto che le viene conferita la National Medal of Science nel 1970, l'Horwitz Prize nel 1981 ed infine il premio Nobel per la medicina nel 1983, ben 35 anni dopo la sua prima pubblicazione sui trasposoni.
Oggi vengono definiti trasposoni alcuni elementi genetici, presenti nei cromosomi, capaci di spostarsi da una posizione all'altra del genoma; ciò vuol dire all'interno di uno stesso cromosoma, nel caso dei batteri (che appunto hanno un cromosoma solo), oppure da un cromosoma ad un altro nelle specie superiori. Per spostarsi, hanno bisogno di enzimi (trasposasi), prodotti a partire da geni presenti nei trasposoni stessi, che permettono loro di staccarsi e reintegrarsi in zone diverse del genoma.
Il loro inserimento in nuove sedi può avere, naturalmente, gli effetti più vari a seconda del punto di inserzione e causare, per es., mutazioni genetiche, inserendosi all'interno di geni funzionali ed alterandone, o impedendone, le normali funzioni. Ma gli effetti si possono avere anche nella sede dalla quale si è allontanato il trasposone e ciò può sia ripristinare la funzionalità di un gene come impedirne l’espressione.
Il ruolo evolutivo di questi elementi trasponibili è ancor oggi oggetto di indagine; certamente l’aver evidenziato la loro presenza in organismi molto diversi è suggestivo per la loro comparsa in un antenato comune, quindi molto antico filogeneticamente, con successiva trasmissione verticale alle specie da esso derivate; in alternativa si può ipotizzare una comparsa ripetuta in organismi diversi o ancora una comparsa singola, seguita da trasferimento genico orizzontale tra diversi Phyla (****).
Alcune scuole di pensiero, basandosi su evidenze che i trasposoni, così come i virus, sono capaci di esistere all'interno del genoma di una cellula come se fossero elementi autonomi di DNA, ritengono che trasposoni e virus possano derivare entrambi da un progenitore comune.
Negli ultimi tempi si guarda a questi elementi mobili con estremo interesse allo scopo di utilizzarli in campi diversi di studio. Per esempio nell’ambito della terapia genica (*****), per portare specifici geni all’interno di una cellula che ne sia priva, quando questa carenza si accompagna a patologia altrimenti incurabile, ma anche nell’ambito degli studi sulle cellule staminali, in particolare usando  i trasposoni per introdurre in cellule adulte geni capaci di farle regredire a cellule staminali pluripotenti, capaci poi di svilupparsi in organi e tessuti di tipo diverso. 
Oggi, a volte, li troviamo definiti come “jumping genes”, o “geni che saltano”, e si sottolinea come svolgano la loro funzione soprattutto durante l’embriogenesi e non soltanto all’interno dei gameti o, come si era inizialmente pensato, solo durante le prime fasi di sviluppo degli ovociti e degli spermatozoi.
A tal proposito è suggestiva la tesi recente di alcuni ricercatori del Salk Institute for Biological Studies (Usa), che spiegherebbe, proprio con i geni saltatori, la complessità ed insieme l’unicità del nostro cervello. Le cellule nervose umane contengono, infatti, un numero in precedenza insospettato di questi elementi, “piccole sequenze” di DNA che, con un meccanismo tipo “copia” e “incolla, inserirebbero repliche di se stessi lungo tutto il genoma cellulare. Nel cervello embrionale le cellule che poi diventeranno neuroni, pur sembrando tra loro uguali, daranno vita ad una varietà enorme di neuroni maturi, che formeranno il cervello. Ancora non si capisce chiaramente come possa avvenire questa complessa diversificazione per cui, considerato che il cervello possiede 100 miliardi di cellule con 100 trilioni di connessioni, proprio le parti mobili potrebbero essere la fonte, per i singoli neuroni, di quelle caratteristiche che li rendono ciascuno diverso dall’altro.
Oggi queste ipotesi non solo sembrano possibili, ma molte di esse sono state verificate eppure 60 anni fa, quando Barbara McClintock ne parlò per la prima volta, fu ostracizzata dall’Accademia.
 
A tutto il mondo scientifico rimangano a perpetuo monito le sue parole "Bisogna sempre credere alle nostre osservazioni, per quanto bizzarre possano essere. Forse stanno cercando di dirci qualcosa”.


(*)          vedi, della stessa autrice, articolo marzo 2010
(**)        vedi, della stessa autrice, articolo dicembre 2010
(***)      vedi, della stessa autrice, articolo novembre 2009
(****)    vedi, della stessa autrice, articolo febbraio 2010
(*****)  vedi, della stessa autrice, articolo dicembre 2010

 


Uscita nr. 24 del 20/08/2011