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Mi è sempre parso oltremodo strano, e anche profondamente ingiusto, il fatto che, qualora si domandi a dei Veneziani chi considerino, nel tempo, il loro più famoso concittadino, i due nomi sui quali si appuntano le preferenze siano ogni volta gli stessi due, ovvero Marco Polo e Carlo Goldoni. Orbene, io ammiro tantissimo il grande viaggiatore, per il suo coraggio, per la sua resistenza e soprattutto per la sua intelligente curiosità, senza contare che m’intenerisce molto sapere come, dopo aver percorso così sterminati spazi di mari, di steppe, di deserti e d’imperi, gli sia toccato trasmettere a Rustichello da Pisa il suo Milione, nel chiuso angusto del carcere di Genova dov’erano entrambi finiti, in seguito alla sconfitta della Meloria; quanto poi al grande commediografo, nutro per lui una tale venerazione che, di recente, le mie finanze hanno subito un considerevole salasso causa l’acquisto delle sue opere complete in un mercatino antiquario. Eppure, se la domanda con cui ho iniziato venisse rivolta a me, io non opterei né per l’uno né per l’altro, ma sceglierei invece subito, con sicurezza, l’unico, l’impareggiabile, l’inimitabile cavaliere di Seingalt, come aveva arbitrariamente deciso lui stesso di farsi chiamare, cioè quel simpatico briccone di Giacomo Casanova.
I pregiudizi moralistici che si possono opporre a questa mia predilezione mi sembrano del tutto irrilevanti. Caravaggio resta l’eccelso pittore di San Luigi dei Francesi, anche se ha accoppato un tizio per una lite durante una partita di pallacorda, Villon resta lo straordinario poeta della Ballade des pendus, anche se ha scassinato il Collegio di Navarra e non s’è fatto mancare neppure lui il suo bravo omicidio nella persona di un prete, Churchill ha ricevuto i più solenni funerali di stato per la sua azione di guida del proprio paese nella lotta contro il nazismo, malgrado la sua esclusiva pesantissima responsabilità nel disastro di Gallipoli, con svariate decine di migliaia di morti a pancia all’aria sulla battigia … e, quando poi si arriva a Casanova, ecco che si arriccia il naso, e ci si atteggia a censori, e si diventa di colpo rigidi, come se la propensione alla goduria, e una certa disinvoltura nella ricerca dei mezzi per soddisfarl,a potessero togliere una frase, una parola, una virgola, a quel meraviglioso monumento al Settecento che sono le sue Memorie. Inoltre, dietro questa mal piazzata pruderie, mi verrebbe da intravedere anche qualcosa di non molto nobile, se non addirittura di parecchio meschino: l’invidia, non tanto dettata dal folto numero delle conquiste (anche perché in questo campo il nostro risulta ampiamente battuto da ben altri performers tipo Simenon, il papà di Maigret, col suo carnet di circa 18.000 compagne d’alcova) ma dal fatto che con tutte le sue donne, a parte le odiose Charpillon madre e figlia, Casanova è riuscito sempre a rimanere in buoni rapporti, per quanto breve fosse stato l’incontro ed effimera l’attrazione, e ogni volta che si ritrovavano era come un’affettuosa rimpatriata, con lui che in caso di bisogno aiutava loro e spesso al contrario con loro che aiutavano lui, momentaneamente in difficoltà, ben diversamente insomma dal leggendario Don Giovanni che dietro di sé lasciava solo terra bruciata, fanciulle in lutto e commendatori nella bara. In breve, ritengo che molti (fra cui Fellini, che gli dedicò un film figurativamente splendido, ma alquanto astioso e del tutto fuorviante) non perdonino a Casanova non i suoi peccatucci e i suoi imbrogliucci, ma il suo innegabile fascino, e la sua sfrenata vitalità, e la facilità e la schiettezza delle sue relazioni con l’altro sesso, per quasi tutti noi maschietti non di rado, invece, complicate e tortuose.
L’Histoire de ma vie fu interamente composta nel castello boemo di Dux, dove Casanova trascorse gli ultimi tristissimi anni dal 1785 al 1798 come bibliotecario del conte di Waldstein, suo confratello di massoneria, litigando con la servitù che lo sbeffeggiava e che gli faceva mille dispetti, non ultimo quello di lesinargli la dose quotidiana di maccaroni che egli aveva addirittura precisato nel contratto. L’unica consolazione, per lui ormai vecchio e dimenticato, circondato da un ambiente ostile e ancor più da un mondo che l’esecrata Rivoluzione francese e la caduta della Serenissima gli avevano reso praticamente estraneo, fu rivivere il buon tempo andato della balda giovinezza, delle scorribande da una Corte europea all’altra ed anche da questo a quel boudoir, scrivendo freneticamente, spesso per tredici o quattordici ore al giorno, sicché il manoscritto, benché si arresti volutamente al 1774, data dopo la quale l’autore si rese conto di non aver più niente di bello da rievocare, comprende quasi 4000 pagine che hanno avuto esse pure un’esistenza tribolata e avventurosa. Venduto nel 1820 da Carlo Angiolini, pronipote di Casanova, all’editore Brockhaus di Lipsia, il manoscritto, dopo un paio di edizioni incomplete, censurate e rimaneggiate o persino piratesche, finì in una cassaforte nel bunker della casa Brockhaus e non fu più mostrato a nessuno, nemmeno ai più serî studiosi e ai più supplichevoli ricercatori (“Anche gli dei, scrisse sconsolatamente un biografo di Casanova della portate di Stefan Zweig, anche gli dei lotterebbero invano contro i Brockhaus!”), ma questo servì se non altro a proteggerlo quando nel 1943 l’intero immobile coi suoi inestimabili archivi bruciò per giorni e giorni durante i bombardamenti alleati. Portato al sicuro in bicicletta attraverso la città incendiata, e da Lipsia poi, nel 1945, trasferito a Wiesbaden, grazie a un camion dell’esercito americano, dovette ancora aspettare fino al 1960 per essere finalmente pubblicato in testo integrale, e dal 2010 è nella Biblioteca Nazionale di Francia dalla quale è stato acquistato dopo lunghissimi corteggiamenti per una cifra che pare si aggiri intorno ai 20 milioni di euro.
Ebbene, quei 20 milioni questo capolavoro li vale tutti. E se non si vuol credere a me, si creda almeno a coloro che a torto lo hanno sospettato un falso nientemeno di Stendhal, o ad un estimatore autorevole quale Salvatore di Giacomo, che alla fine della prima guerra mondiale avrebbe voluto contemplata, nel trattato di pace fra Italia e Germania, la restituzione al nostro paese del preziosissimo autografo del suo figlio veneziano, facendo con tale discorso inorridire e ridacchiare di sufficienza il solito Croce, come gustosamente nota, ridendo a sua volta alle spalle del troppo austero Benedetto, Piero Chiara, che di Casanova ha curato amorosamente la versione italiana. E, mantenendosi solo in ambito nostrano, gli elogi piovono dalle provenienze più disparate, per esempio sia dal pur verecondo Momigliano sia dal tutt’altro che verecondo Aldo Busi, che di recente ha dichiarato trattarsi di uno dei suoi libri preferiti, o da uno studioso del romanzo italiano importante come Spagnoletti … Ahimé, le sue memorie Casanova ha deciso di scriverle, ed anche con molti svarioni grammaticali e di vocabolario, in francese, giudicando quest’ultima una lingua più conosciuta della propria, soprattutto ai suoi tempi, e quindi più favorevole alla diffusione e all’immortalità della sua opera, come egli stesso esplicitamente dichiara nella prefazione, e perciò a noi suoi compatrioti non rimane che il vano rimpianto di immaginare come sarebbe stata forse la storia successiva della nostra letteratura se, trent’anni prima della famosa “ventisettana” dei Promessi Sposi, vi fosse esplosa dentro questa specie di bomba.
L’incantesimo, per me almeno, è cominciato subito, fin dalle pagine iniziali, allorquando il piccolo Giacomo, nato “in Calle della Commedia, naturalmente” (come osserva un suo arguto biografo) da una bellissima attrice che forse aveva avuto una relazione extraconiugale con un nobile Grimani, è ancora gracilino e soffre di emorragie nasali, proprio lui che da adulto sarebbe stato un fustacchione moro, alto un metro e ottantasette (tutte le descrizioni dei contemporanei concordano sui due particolari dell’alta statura, che colpì molto anche Federico Il Grande di Prussia, notoriamente assai “ incline” ai granatieri, e del colorito molto olivastro, spagnoleggiante: un paio di caratteristiche che senza dubbio, come se non bastassero la sua fascinosa disinvolturae la sua leggendaria parlantina, dovevano certamente fare colpo in mezzo a tutto quel pecorume di abatini, già palliducci di natura e per di più incipriati, che gli arrivavano sì e no alla spalla). Allarmata dalla debolezza del nipotino prediletto, la nonna materna, Marzia Farussi (si noti la desinenza friulana del cognome) lo porta in gondola a Murano da una fattucchiera, ovviamente furlana anche lei, e il bambino, che continua a perdere sangue, viene chiuso dentro una cassa e sente intorno grida e canti e rumori, finché l’emorragia non s’arresta per poi a poco a poco non ripresentarsi mai più. Ecco, c’è una scena come questa, piena di tutta l’ingenua magia dell’infanzia, al principio del libro, bollato frettolosamente come un meccanico repertorio di oscenità, anche se non si può negare che gli episodi osés certo abbondano, spesso quasi sbarazzini, altre volte più hard, ma pur sempre specchio veritiero dell’epoca e della società in cui si svolsero, come i comportamenti a dir poco eterodossi che si tennero nella ressa morbosa ed isterica durante l’esecuzione di Damiens. Questi, avendo cercato di pugnalare Luigi XV, fu sottoposto in Place de la Grève a un supplizio particolarmente elaborato ed atroce che si protrasse per oltre quattro ore, davanti a un pubblico talmente numeroso da gremire non solo la piazza, ma anche i tetti e i camini delle case circostanti, le cui finestre per l’occasione erano state affittate a prezzo d’oro. Ad una di queste finestre appunto si accomoda anche Casanova col suo gruppo, comprendente tre signore, fra cui una più stagionata e vero modello di cristiano contegno, nonché un giovane nobilastro di Treviso, il conte Tiretta, tipo svelto e completamente privo di scrupoli. Siccome le dame, per vedere meglio, si sistemano davanti, ma coi gomiti sul davanzale per non togliere la visuale ai cavalieri alle loro spalle, agevolmente Tiretta, con un fruscio di vesti che, benché lieve, non sfugge però all’espertissimo Giacomo, a lungo si occupa a modo suo della devota tardona apparentemente concentrata soltanto sul cruento spettacolo che si sta svolgendo sotto i loro occhi.
Direi che dell’intera Histoire de ma vie questo è il brano che mi è parso il più cinico di tutti e, pur riconoscendone la verve sarcastica, preferisco però altri passi più delicati, per esempio l’addio fra Casanova e colei che fu probabilmente il suo grande amore, la misteriosa Henriette. La tristezza per la brusca recente separazione s’acuisce ancora di più quando, su un vetro della stanza che aveva diviso con lei, egli scopre, incisa con la punta di un piccolo diamante da lui stesso regalatole, la brevissima scritta consolatoria: “Tu oublieras aussi Henriette … Tu dimenticherai anche Henriette”. Tale episodio, che piaceva particolarmente pure a Edmund Wilson, è, come si vede, agli antipodi del precedente, e li ho accostati apposta per far toccare con mano la varietà di atteggiamenti assunti da Casanova, a seconda delle circostanze nei riguardi del gentil sesso. Ogni donna è per lui diversa e inconfondibile e costituisce dunque un romanzo a parte, dal presunto castrato Bellino (per il quale Casanova prova un’attrazione che, in quanto apparentemente innaturale, non gli dà pace finché non scopre che, proprio come in cuor suo presentiva, non di un ragazzo senza un pezzo si tratta ma di una femmina attrezzata al gran completo, travestitasi così solo per poter cantare nei teatri dello Stato pontificio, dove altrimenti le sarebbe per legge proibito) all’aristocratica monaca M.M., già amante anche dell’ambasciatore di Francia e futuro cardinale De Bernis (sicché si instaura una sorta di rapporto a tre che, secondo alcuni, sarà in seguito molto vantaggioso per Casanova, a più riprese nel corso delle sue avventure aiutato forse dal potentissimo porporato), e da Teresa a C.C., e da una greca a una svizzera, e da un’attrice a una nobildonna, e così via procedendo finché reggeranno la prestanza e la buona sorte.
Ma sarebbe far torto a queste memorie presentarle solo come una collezione ininterrotta e quasi maniacale di relazioni amorose, quando in realtà c’è molto, davvero molto di più. Ci sono risposte fulminee, come quando all’Opéra la Pompadour, sentendo che Casanova è di Venezia, gli domanda: “Davvero venite da laggiù?” per sentirsi orgogliosamente ribattere: “Venezia non è laggiù, Madame: Venezia è lassù.” E ci sono raggiri degni della novellistica rinascimentale, come quando alla semirimbambita marchesa d’Urfé vengono spillati quattrini a iosa con la promessa che, grazie a certe operazioni a metà strada fra l’alchemico e l’erotico, resterà incinta (a 74 anni suonati!) e poi si reincarnerà lei stessa nella sua creatura, così da avere un nuovo sesso e una nuova giovinezza. E ci sono incontri (Voltaire, papa Rezzonico, Caterina di Russia, il Cavaliere di Saint-Germain e il suddetto Federico di Prussia, il conte di Cagliostro e il re di Polonia, e Winckelmann, e Rousseau, a farla breve tutto il Gotha sia aristocratico che intellettuale che furfantesco del periodo) e ci sono città, in pratica l’intera Europa, e persino Costantinopoli, ed è solo perché ormai era troppo anzianotto per andarci e quindi a malincuore mandò a monte il progetto che non c’è il Madagascar. E ci sono dettagli d’ogni genere, talora importanti, talora insignificanti, eppure sempre gustosi: per esempio, se a qualcuno proprio interessasse saperlo, alla regina di Francia Maria Leszczynka, consorte di Luigi XV, andava molto a genio, tanto da farne il bis, la fricassea di pollo, mentre a Vienna, dopo i severi editti promulgati da Maria Teresa per reprimere la prostituzione, tutte le ragazze erano costrette ad uscire con un rosario in mano, così da poter dire, nel caso fossero state fermate dai poliziotti travestiti di cui la città pullulava, che non a battere il marciapiede si stavano recando, bensì in chiesa a pregare.
E, ciliegina sulla torta, c’è naturalmente la narrazione della celebre fuga dai Piombi, che rese il suo autore famoso e ricercatissimo in tutti i salotti. Non c’era volta che non lo pregassero di ripeterla, e ogni volta lui acconsentiva, non senza aver prima avvertito però che il racconto sarebbe durato due ore. C’è stato qualcuno ai giorni nostri che, volendolo cogliere in castagna, ha provato a cronometrare la lettura ad alta voce del brano, e con somma sorpresa ha dovuto constatare che essa richiede esattamente quel lasso di tempo. Al che qualcun altro, in quella specie d’aura di divertita frivolezza che sempre aleggia quando si discorre di Casanova, ha spiritosamente commentato che non c’era proprio niente da stupirsi, perché essere un grande amatore è anche questione di precisione.
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